DIRITTO ALL’ISTRUZIONE E DIDATTICA A DISTANZA. Una riflessione da fare a tutto campo, anche al nostro interno.
Dal 5 marzo sono sospese le lezioni. E’ passato più di un mese. I ragazzi e i docenti sono a casa e non ci sono segnali perché possano rientrare prima della chiusura dell’anno scolastico. Anzi, dubbi ve ne sono anche per una ripresa regolare a settembre. Una Caporetto per il diritto all’istruzione, paragonabile solo agli anni della guerra, dove, peraltro, non sempre e non contemporaneamente su tutto il territorio nazionale, le scuole rimasero chiuse.
Il Ministero risponde alla crisi lanciando la parola d’ordine della didattica a distanza, la DAD. Stanzia immediatamente 85 milioni di euro, per le 8500 istituzioni scolastiche del paese, fondi immediatamente disponibili, per acquistare dispositivi da dare in comodato d’uso gratuito agli studenti, potenziare la formazione dei docenti, utilizzare piattaforme digitali per la DAD. La ministra pensa di rivendicare, ma a torto, dati non veritieri oltre che irrealistici, come quello dei 6,7 milioni di studenti che seguirebbero le attività didattiche a distanza (su 8,6 milioni di studenti che frequentano le scuole italiane, elementari e scuole private comprese).
La verità è che la scuola italiana, con o senza gli 85 milioni, sconta ritardi siderali per tecnologie utilizzate e attenzione ai processi di innovazione della didattica, abbandonata com’è alle singole capacità e professionalità di un corpo docente mal pagato e non aggiornato, con carenze di organico in tutti i profili. Una scuola che, anche a voler seguire le buone intenzioni del nuovo governo, non sembra uscire dalle politiche degli ultimi trenta anni, incapace di pensare a un futuro che non sia legato al pensiero unico dell’asservimento alle logiche e alle necessità dell’impresa.
Per tutta risposta i sindacati dei lavoratori della scuola, (questa volta non fanno differenza nemmeno i sindacati di base), che avrebbero dovuto accettare la sfida in una fase di emergenza che mette a nudo tutti i limiti dell’attuale istruzione pubblica, si stringono invece, corporativamente, attorno ai diritti dei singoli soggetti, separatamente intesi, con parole d’ordine quali: per i docenti non è prevista alcuna forma di lavoro agile/smartworking; non sono tenuti al rispetto dell’orario di lavoro; non vi è obbligo di effettuare videolezioni o attivare classi virtuali; non vi sono obblighi per gli studenti; vanno sospese tutte le attività collegiali, il personale non docente rimane a casa senza obbligo alcuno se non rientra nel contingente minimo individuato per lo svolgimento dei servizi essenziali, servizi che, come dice più di qualcuno, anche animato dalla passione per la scuola pubblica, non esisterebbero.
Come se la solitudine, lo smarrimento, la negazione del diritto all’istruzione per le nostre ragazze e per i nostri ragazzi fossero considerati elementi, tra tanti altri, sottoposti a una disciplina contrattuale e non problemi immanenti a cui tentare di dare comunque una risposta, ancorché confusa, improvvisata, sicuramente non ordinaria.
Si percepisce come un sottile invito al rompete le righe, che la scuola è finita.
Il rischio è che la scuola pubblica finisca per davvero.
Nessun dubbio che le attività in presenza (dalle lezioni, alle verifiche, alle valutazioni collegiali) non possano essere sostituite da quelle a distanza, nemmeno in una percentuale più o meno significativa; che il digitale divide sia un problema legato alla disuguaglianza economico e sociale, ma che vada combattuto in primo luogo proprio dalla scuola pubblica, potenziando le competenze digitali degli insegnanti e degli studenti e dotando questi ultimi, quando necessario, di risorse per l’accesso alla rete, non ignorando l’esistenza di internet; che lo smart working (tradotto in italiano in lavoro agile), vera e propria conquista dei lavoratori, non venga scambiato con il lavoro a cottimo o peggio con il lavoro a distanza, che, al contrario, impone gli stessi ritmi e orari di lavoro, togliendo pure quel minimo di socialità insito nel lavoro in presenza.
Insomma, se le scuole non sono aziende, per quanto i governi abbiano provato a trasformarle, è perché il prodotto delle sue attività è un bene comune e non un profitto intascabile da un padrone di turno.
La paura che il futuro della scuola venga disegnato sulle impronte lasciate dalla fase di emergenza fa perdere di vista quello che è il fine ultimo dell’istruzione pubblica: la crescita intellettiva, culturale e sociale delle giovani generazioni, oggi minata dai divieti imposti dal coronavirus. Un bene comune, come la sanità.
Ma allora anche il personale che ci lavora, docenti in primo luogo, non può essere accomunato ai lavoratori di un’impresa privata.
In periodi eccezionali come questo, che diremmo se i medici e gli infermieri decidessero di non svolgere gli straordinari, oppure di dichiarare la propria indisponibilità a cambiare settore perché non sufficientemente formati? In periodi eccezionali, come ad esempio dopo i terremoti, la prima attività che si pensa di ripristinare è la scuola. A nessuno importa che le classi vengano accorpate o che si faccia lezione in una tensostruttura, o che non siano completamente rispettati gli orari di servizio del personale. Quello che conta è ripristinare un diritto primario, ancor di più perché riguarda le generazioni più giovani.
Tutto questo non ha nulla a che vedere con la sacrosanta difesa dei diritti dei lavoratori a non essere sfruttati e lesi nella propria dignità. Se vogliamo dirla tutta, una parte dei lavoratori pubblici, sicuramente quelli della scuola, in questo periodo disgraziato, conserva lavoro e stipendio a fronte di un impegno lavorativo ridotto se non azzerato. Non è così per una parte considerevole dei lavoratori italiani.
E nemmeno con l’altrettanto sacrosanta battaglia per ridare alla scuola pubblica il ruolo che merita, recuperando l’aspirazione primordiale a farne un luogo di formazione e crescita di un sapere critico e, proprio per questo, prestando maggiore attenzione ai nuovi saperi, confrontando, sperimentando e spostando a proprio vantaggio le nuove tecnologie e le potenzialità che da esse possono scaturire per innovare le forme della didattica.
Chi farà domani questa battaglia? A chi interessa ritornare alla “normalità” del pre-coronavirus?
Questo tempo sospeso può diventare un tempo di lotta, costruendo un’attenzione generale sulla scuola pubblica e sui suoi attuali limiti.
Per farlo in modo convincente occorre lavorare e non ritirarsi. Occorre continuare, nei modi in cui è possibile, a stare vicino agli alunni, ad interagire con essi, ad impegnarli in attività culturali e di studio, a inventare o sperimentare nuove forme di didattica, dimostrando con l’esempio l’attaccamento ai valori più alti. Occorre alimentare il dibattito sulla scuola tra i lavoratori e nella società, facendo tesoro delle esperienze maturate in questo periodo di emergenza. Occorre fare tutto questo se vogliamo il bene della scuola pubblica, non perché, potrebbe essere scritto in qualche circolare ministeriale. E’ quello che stanno facendo tanti insegnanti e tanti lavoratori della scuola.
Occorre farlo se vogliamo evitare che l’opinione pubblica scambi l’inadeguatezza della scuola con quella di chi ci lavora.