L’ultimo film del regista de “Il Divo” è un viaggio attraverso l’America alla ricerca delle radici

“ … – Falla girare, – mi disse mio padre, e così la carta d’identità del Terzo Reich di Walter e la sua lettera larga cinque centimetri da Auschwitz passarono da me a Claire, poi da Claire a Seth e Ruth, che erano nati, rispettivamente, nel 1957 e nel 1961 e che sembravano stupefatti dai due documenti come lo erano dal loquace sconosciuto col numero sul braccio …” (Philip Roth, Patrimonio).

“ … Al tramonto il dottor Zuckerman era privo di conoscenza già da parecchio tempo quando il medico prese Nathan in disparte e gli disse che era questione di ore. Sarebbe scivolato via in silenzio, disse, ma il medico non conosceva il padre di Nathan come lo conoscevano i suoi familiari. Verso la fine, infatti, come ti capita qualche volta se sei fortunato – o sfortunato – il moribondo aprì gli occhi e sembrò vederli e riconoscerli tutti, e capire, con la stessa lucidità di ognuno dei presenti, cosa stava succedendo … “ (Philip Roth, Zuckerman scatenato).

Quando alcune serate fa mi sono imbattuto per la prima volta nella visione di “This must be the place” (“Questo deve essere il posto”), l’ultimo film di Paolo Sorrentino, mi sono ritornate in mente parole e immagini nascoste, disseminate nelle pagine di svariati libri di Philip Roth, uno dei più prolifici scrittori americani di origini ebraiche. Il film è stato girato tra Dublino e gli Stati Uniti (New York, Michigan, Utah, New Mexico), e si avvale dell’interpretazione di uno dei più riveriti “mostri sacri” del cinema hollywoodiano, il sempre più spaventosamente istrionico e maturo Sean Penn, reduce da alcuni indiscutibili trionfi conseguiti nell’ultimo decennio: innanzitutto “Mystic River” (2003), ma anche “Milk” (2008) e “The Tree of Life”, con il quale ha vinto la Palma d’oro al festival di Cannes del 2011.

Sean Penn non si è limitato a recitare una parte, nonostante proprio l’interpretazione dell’attore americano sia stata decisiva per il successo del film di Sorrentino. È evidente, infatti, come la scelta del soggetto, del personaggio, dell’ambientazione, della fotografia e delle musiche abbia costituito il terreno di una proficua collaborazione tra il regista e l’attore protagonista. Corre pertanto l’obbligo di riconoscere i meriti di Sean Penn nell’ideazione e realizzazione dell’opera, senza per questo sminuire il valore del nostro Sorrentino, consacrato come il miglior regista italiano in attività da un film del calibro de “Le conseguenze dell’amore” (che ha sancito anche la superiorità artistica di Toni Servillo fra gli attori italiani viventi).

Dicevo di Roth e dei suoi libri. Ebrei i personaggi, tipicamente e ancestralmente ebraica la tematica al centro della storia narrata: il tormentato, rimosso, obliato e pertanto irrisolto rapporto padre-figlio, che è motore e causa dell’universale e arche-tipica ricerca delle proprie radici, delle proprie origini, ma anche “topos” conflittuale nel quale si dispiega la doppia antinomia “libertà/necessità” e “individuo/società”. Il padre come fonte delle fondamentali norme che il soggetto, pur se obtorto collo, è costretto ad accettare e condividere se vuole (anche se non vuole) essere membro sociale. Non tutti sono disponibili al sacrificio della propria identità, non tutti si trasformano con consapevolezza e serenità in “esseri sociali”, accettando il posto che la collettività ha loro destinato. C’è chi rimane sempre “fuori posto”, anche a cinquantanni, ed esibisce con ostinazione il proprio anti-conformismo e la propria a-socialità. Questa resta pur sempre una marginalità di facciata, che si esprime sul piano della pura apparenza e dell’esteriorità, e che tuttavia consente all’individuo di stringere un facile compromesso con la propria coscienza. È il caso di Cheyenne, il protagonista del film magistralmene interpretato da Sean Penn, che si potrebbe descrivere con una battuta: “vivo di rendita, vado tutti i giorni al centro commerciale, però non lavoro, mi vesto come mi pare, mi trucco come mi pare, posso permettermi il lusso di risultare antipatico alla maggioranza”.

Cheyenne è un’ex rock-star americana ritiratasi a vita privata a Dublino, città del tutto “fuori posto” nell’universo creato dal capitalismo globalizzato e globalizzante. È sposato con una strana donna che di professione fa il vigile del fuoco. Anche lei è fuori posto: è estranea al mondo dello spettacolo e della musica pop e ha un’unica, bizzarra amica.
Cheyenne è un ebreo errante, e non è certo un caso che il suo nome rimandi ad un popolo pellerossa massacrato dalla civiltà dei bianchi invasori. Crede, o almeno si illude, di aver trovato finalmente il luogo adatto in cui vivere. Il precario equilibrio raggiunto dal protagonista, sempre sull’orlo dell’ansia e della depressione, si spezza quando gli giunge una notizia dall’altro capo dell’oceano Atlantico: il padre, con cui Cheyenne non ha più alcun rapporto da trent’anni, sta per morire. È in questo momento che inizia a svilupparsi il nucleo centrale del film, con il tardivo ritorno a New York (il padre è ormai morto) e una scoperta decisiva: il padre, sopravvissuto ad Auschwitz e all’Olocausto, si era messo sulle tracce del nazista che anni prima lo aveva umiliato durante la prigionia nel lager. La caccia si era interrotta all’improvviso con la sua morte, proprio quando stava per giungere felicemente al termine. Cheyenne decide così di proseguire nella ricerca con lo scopo di punire l’aguzzino nazista e rendere giustizia al padre. È questa l’occasione e la giustificazione di cui il protagonista ha bisogno per intraprendere un percorso parallelo, che sente di non poter più rimandare: il viaggio alla ricerca delle proprie radici, cause e fonti degli uomini che siamo e che diventiamo negli anni, e al tempo stesso motivi che ci spingono ad andare avanti e a nutrire speranza nel futuro.

La cinepresa del regista segue Cheyenne nel suo peregrinare per l’America più profonda e sterminata, l’America delle lunghe autostrade nel deserto, l’America delle pianure solcate dai grandi fiumi, l’America delle lunghe catene montuose. E come la cinepresa, anche la musica accompagna Cheyenne, ed è la musica pop e insieme colta di David Byrne (che appare in un breve cameo nella parte di se stesso), così distante dalle note di Gabriel Fauré che incorniciavano le tristi passeggiate mattutine di Andreotti-Servillo ne “Il Divo”. Ancora una volta la musica è parte integrante e sostanziale di un film di Sorrentino, così come l’impeccabile fotografia di Luca Bigazzi.

Come si conclude la ricerca del protagonista? Cheyenne scova la tana dove il vecchio nazista si nasconde per sfuggire alla caccia e……..no! Non vi svelerò come si conclude il film, è più gratificante vederlo personalmente. Vi dico solo che il “posto” non è quello, né poteva esserlo.
Francesco Sirleto 

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